
Ricettacolo letterario a sfondo enogastronomico e viceversa.
A cura di Alberto Gross e Nicola Evangelisti e viceversa.
PER UN'INDIGESTIONE DI GIGLI

RISTORANTE MILIO A SANTA ANASTASIA

RISTORANTE MILIO A SANTA ANASTASIA
Corso Sant'Anastasia, 42 37121 Verona
Visitato il 6 Aprile 2014
La signorina all’ingresso, fulvi i capelli, ci accoglie sorridente e ci accompagna con modi affabili al nostro tavolo. Attraversiamo un paio di stanze, piccole e susseguenti, luci tenui e non invasive, bric-a brac di oggettistica fintamente barocca sparsa tra gli angoli.
Il menù che ci viene presentato si rivela sufficientemente breve per non indisporci, tuttavia non abbastanza vario per consentirci scelte convinte e consapevoli.
Chi ci prepara il tavolo non sarà la medesima persona che prenderà le nostre ordinazioni e quest’ultima non sarà la medesima persona che ci presenterà le pietanze: confusione e sovrapposizione di ruoli che si ripeterà nel corso di tutta la cena, con nostro necessario disappunto. Ma, fin qui, ancora tutto bene.
I ravioli d’anatra con tartufo pur rivelandosi, nella loro morfologia, evidentemente dei tortelloni, sono un piatto equilibrato e ben costruito, forse con troppo burro fuso a lucidare una sfoglia giustamente sottile e cotta quasi alla perfezione.
Gli spaghetti alle vongole con bottarga avrebbero forse gradito qualche secondo in meno di cottura ma evidenziano un ulteriore, ben più grave difetto: pure presente alla vista è quasi del tutto fantasmatica al palato la sapidità della bottarga, probabilmente aggiunta alla pasta sottoforma di succedaneo.Il Sauvignon delle Grave - scelto da una cantina poco fornita e con etichette quasi tutte locali - si dimostra sorprendentemente anonimo, del tutto privo di interesse.
Ma il momento migliore sarebbe dovuto arrivare con la “Selezione di formaggi e mostarde”, (sic.).
Alla domanda, posta con estrema innocenza e quasi una punta d’ingenuità, su quali fossero i formaggi presenti nella selezione la signorina che ci aveva accolti all’ingresso risponde con un perentorio “…ah questo non lo so!”, come a sottolineare l’ovvietà inevitabile di tale risposta. Ad un nostro timido incalzare per informarci se, per azzardo, si sarebbe rivelata la presenza di qualche erborinato la signorina quasi irride con un ancora più perentorio “…non so neanche cos’è!”.
Si riserva tuttavia d’informarsene in cucina. La qual cosa, naturalmente, non farà mai. Una differente signorina ci presenta un piatto circolare così composito: caciotta (dalla provenienza da tutti misconosciuta all’interno del ristorante), pecorino al Valpolicella, monte Veronese, pecorino sardo semistagionato e parmigiano reggiano; quest’ultimo si rivelerà essere indubbiamente un grana padano ma, a questo punto, quisquilie. Le “mostarde” del menù si risolvono in un microbicchierino di miele (impossibile conoscerne la natura) e un secondo microbicchierino di confettura (impossibile conoscerne la composizione). Inutili fettine di pera, una ancora più inutile e quasi irritante fragola completano un piatto sporcato da gocce di uno sciroppo dal verde chimico e plasticoso e dal sapore di dentifricio.A fine serata la prima signorina tiene a farci sapere che è molto stanca, c’è stata molto gente ed è un peccato avere molti clienti e bla, bla, bla… come se la cosa potesse essere di nostro minimo interesse.




